Investire nelle terre rare: un grande business o un rischio?

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Il prezzo delle terre rare non ha fatto che crescere (e in maniera vertiginosa) nell’ultimo decennio. Per chi non li conoscesse, si tratta di 17 elementi chimici (precisamente ittrio, neodimio, europio, promezio, gadolinio, terbio, erbio, tulio, olmio, iterbio, samario, praseodimio, scandio, cerio, lantanio, disprosio e lutezio) di cui l’hi-tech non può fare a meno. Fino alla metà del 900 erano estratti principalmente in Brasile e in India, ma ora questi elementi sono prodotti al 97% in Cina. Per via di questo regime pressoché monopolistico, hanno quotazioni altissime e in continuo aumento perché la domanda è di gran lunga superiore all’offerta.

Negli ultimi mesi, però, vari esperti sono convinti che i prezzi delle terre rare siano destinati a crollare. Più che di l’esplosione della bolla dei REE, bisognerebbe in realtà parlare di passaggio delle quotazioni di mercato a valori più reali che in passato. Per essere più precisi, bisognerebbe dire che alcune terre rare vedranno un crollo dei prezzi. Infatti, per queste materie prime non esiste un unico mercato, ma ben diciassette diversi mercati (per alcune terre rare esso è veramente ridotto). Un altro motivo per far prevedere una discesa dei prezzi è il fatto che in Occidente si sta sempre più prendendo coscienza dell’importanza di riciclare le terre rare da computer e cellulari e, una volta avviato questo tipo di processo su larga scala, i prezzi della materia prima sono destinati a scendere.

In un recente articolo comparso su Forbes, Tim Worstall sconsiglia questo tipo di investimento – per quanto suggestivo – ai piccoli risparmiatori, se non in frazioni veramente piccole di portafoglio e comunque sotto forma di azioni delle aziende produttrici. Assolutamente sconsigliato l’acquisto dei materiali in sé (come si fa invece con l’oro o il rame): per un privato sarebbe difficilissimo da liquidare o da rivendere a una grande azienda.


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